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La zona d'interesse

La zona d'interesse di Jonathan Glazer, film ispirato e adattato liberamente dal romanzo di Martin Amis del 2014, racconta la storia del gerarca nazista Rudolf Höss e della sua famiglia, che vivono la propria vita borghese dentro una villa accanto al campo di concentramento di Auschwitz, dove ogni giorno vengono consumate efferate atrocità. La Shoah è vista attraverso gli occhi indifferenti degli ufficiali e delle famiglie che gestivano "la soluzione finale". Nella villa fiorisce il giardino, fioriscono i bambini: a pochi metri di distanza, gridano la violenza e la morte.

Lo sguardo dei protagonisti parte dai gesti ordinari e quotidiani che nel film si sviluppano in un crescendo iperbolico, sino a farci sentire quella nausea che costringe il nostro sguardo verso l'ombelico, anzi le viscere, perché è lì che il regista intende farci sostare. È un effetto su di noi più che su di loro. Il film si posiziona anzitutto sulle percezioni e le sensazioni della barbarie che si sta consumando a pochi metri dall'abitazione, al di là di una siepe, poco oltre il muro di casa nostra. Ciò suona subito come la banalità del male e come la possibilità inconscia di ogni essere umano di abitare quel non luogo. È la domanda sentita e vibrante di ognuno che urla allo scandalo, perché non potrà più esserci poesia dopo Auschwitz.

Il film porta lo spettatore verso il mondo pre-verbale e, più nello specifico, al mondo vissuto prima ancora della nascita, nel ventre-casa dove le percezioni e le sensazioni primeggiano nella costruzione dei primi condizionamenti vitali. È stato nominato a cinque Oscar, vincendo per il miglior film internazionale e il miglior sonoro. Il premio al miglior suono, si percepisce veramente paradossale…

Come si può venire al mondo se i suoni che percepiamo sono quelli del perturbante e del reale scabroso e inguardabile della vita? All'inizio del film, tra tutti i suoni possibili si sente il più assordante: un silenzio lunghissimo e mortifero che richiama un vuoto senza fine. Non si può nascere, non si può uscire da quella casa, non ci si può gettare nel mondo, tutto è coltivato solipsisticamente all'interno: la moglie si prende cura dell'orto e della serra, oltre che dei figli, delle domestiche, degli ospiti. C'è poi un bosco poco più in là, e anche un fiume, per poter immaginare che la casa recintata sia tutto sommato una condizione naturale dove nel fine settimana si organizzano picnic e si va a nuotare. Si organizzano feste con amici per normalizzare tutto, dentro una ripetizione prevedibile (dentro e fuori) e in una formazione graduale del mostruoso.

Oltre ai suoni bianchi della morte con i camini ardenti, le ceneri e il fumo di quei treni che sono impressi in ognuno di noi, c'è un'altra questione che mi colpisce moltissimo ed è l'atteggiamento di Höss: comandante delle SS e tra i principali pianificatori ed esecutori dello sterminio di massa, quando torna a casa legge le fiabe della buonanotte ai figli e scambia qualche battuta con la moglie. Perché, mentre la strega cattiva racconta le fiabe ai figli nella notte, vediamo i fotogrammi fiabeschi in negativo (come se ci fosse la presenza di una parte inconscia positiva compensatoria delle coscienze più mostruose) di una bambina che cerca di nutrire i detenuti dei campi lasciando frutti nascosti nella terra, vicino alle vanghe di lavoro? Perché le fiabe riescono a tenere dentro l'orrore del padre mostro e nel contempo anche la vita, tentando di salvare l'essere umano condannato alla morte? Sappiamo che la fiaba si presenta come prodotto di base della civiltà e come un crocevia fondamentale della storia e della cultura. Essa va affrontata con strumenti seri e complessi come la ricerca storica, letteraria, testuale, antropologica, psicologica e pedagogica. Gli apporti di Jung, Von Franz, Bettelheim, Calvino, Propp, thi, solo per citare i più importanti, ne sono un esempio. Una complessità segnata da racconti dentro e fuori lo spazio (dentro e fuori quella casa degli "orrori"), dentro e fuori dal tempo (un futuro possibile?), racconti in cui il fantastico e il reale segnano il cammino per contenere un'organizzazione psichica altrimenti impossibile da immaginare e da metabolizzare. Una delle domande centrali che potremmo porci è se le fiabe – nella loro intrinseca struttura inclusiva di bene e male (con tutto il corteo di riferimenti altri e di declinazioni possibili), nel riconoscimento di appartenenza alla nostra natura psichica e alle origini più remote – possano salvarci la vita. La fiaba può darci la possibilità di una costruzione etica che sappia reggere il confronto con l'orrore disumanizzante dell'umano?

Jonathan Glazer: un regista visionario?

Immagini, mito e poetica della clinica
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Dal 2 luglio inizia un viaggio inaspettato: quello che doveva essere un semplice podcast su un libro si è trasformato in qualcosa di molto più ampio e profondo. Luigi Ghirri dentro lo scatto di un analista è solo uno stimolo iniziale per dare modo ai tanti ospiti di raccontarsi, di proporre la propria visione sul libro, sulla clinica, sull'arte e, forse, sulla vita. La domanda che rimarrà sospesa fino alla fine di ogni episodio è sempre la stessa: cosa significa pensare per immagini.

Parteciperanno alle varie puntate esponenti di spicco nel panorama culturale, artistico e psicoanalitico italiano.

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